LA CORTE MILITARE DI APPELLO
   Ha  pronunciato  in  camera  di consiglio la seguente ordinanza nel
 procedimento penale a carico di Pelucchi Isacco Diego, nato a  Milano
 il 20 agosto 1978 (atto n. 8 parte I, serie A) e residente a Carpiano
 (Milano)  in via Lazio n. 1. Recluta nel 26 Btg. ''Castelfidardo'' in
 Pordenone. Libero.
   In seguito all'appello proposto dal difensore avverso  la  sentenza
 in data 23 maggio 1997 emessa dal g.i.p. presso il tribunale militare
 di Padova.
   Sentito   il   pubblico   ministero,   il   quale  ha  eccepito  la
 illegittimita' costituzionale della  norma  contenuta  nell'art.  14,
 comma  3,  della  legge  n. 230/1998, a tenore della quale appartiene
 alla competenza del pretore la cognizione del reato  di  rifiuto  del
 servizio  militare  previsto dal comma 2 dell'anzidetta disposizione,
 con riferimento ai parametri costituiti dagli artt. 3  e  103,  terzo
 comma, secondo periodo, della Costituzione.
   Sentita la difesa che si e' rimessa.
                             O s s e r v a
   1.  -  Con  sentenza in data 23 maggio 1997 il giudice dell'udienza
 preliminare presso il tribunale militare  di  Padova,  a  seguito  di
 giudizio  abbreviato,  ha  dichiarato  la  penale  responsabilita' di
 Pelucchi Isacco Diego in ordine al  reato  di  rifiuto  del  servizio
 militare  per  motivi di coscienza, commesso in Pordenone il 18 marzo
 1997, e lo ha condannato alla pena di mesi  sei  di  reclusione,  con
 concessione di entrambi i benefici di legge.
   Avverso   tale   decisione  ha  interposto  appello  il  difensore,
 lamentando la eccessivita'  della  pena  inflitta  e  chiedendone  la
 riduzione ai minimi di legge.
   In  data  31 luglio 1998 e' entrata in vigore la legge n. 230/1998,
 recante nuove norme in materia di obiezione di coscienza, che  ha  in
 parte ridisegnato la fisionomia del tradizionale reato di rifiuto del
 servizio  militare per motivi di coscenza ed espressamente attribuito
 alla autorita' giudiziaria ordinaria la competenza a conoscerne,  con
 cio'  radicalmente  discostandosi  dalla disciplina pregressa, che ne
 aveva attribuito la cognizione alla autorita' giudiziaria militare.
   In  conseguenza  di  tale  novazione  legislativa ed a motivo della
 assoluta inesistenza di norme intese  a  disciplinare  la  sorte  dei
 procedimenti  pendenti,  diventa  ineludibile  applicare il principio
 generale del tempus regit actum e ritenere, senza porsi in alcun modo
 il problema di quale sia la norma sostanziale piu' favorevole, che la
 nuova disciplina processuale si applichi  anche  ai  procedimenti  in
 corso  e  trasmetterne gli atti al giudice divenuto competente (Cass.
 sez. I, sentenze n. 02487 e 01737 del 25 e 24 giugno 1992, in C.E.D.)
   2. - A parere di questo collegio, la  norma  processuale  che  deve
 trovare  applicazione, e che costituisce l'indispensabile presupposto
 del provvedimento di declinatoria di giurisdizione, appare essere  in
 contrasto  con  le  disposizioni contenute negli artt. 3 e 103, terzo
 comma, ultimo periodo, della Costituzione.
   E' certo noto come in varie occasioni la Corte costituzionale abbia
 fornito una interpretazione dell'ultimo degli indicati parametri  nel
 senso   di  escludere  che  con  essa  si  sia  inteso  garantire  la
 giurisdizione militare nella  sua  configurazione  preesistente  all'
 entrata  in  vigore  della Carta fondamentale ed abbia di conseguenza
 rimarcato come la sua essenziale ragion d'essere vada ravvisata nella
 esigenza di circoscrivere i limiti massimi, soggettivi ed  oggettivi,
 della  suddetta  giurisdizione,  cosi'  da  impedire  che  gli stessi
 possano  essere  superati  a  detrimento della competenza del giudice
 ordinario,  espressamente  considerato  come  l'organo  su   cui   e'
 incardinata la giurisdizione normale in tempo di pace.
   La predetta linea giurisprudenziale nasce con la sentenza n. 29 del
 1958  e  trova  modo  di  essere ulteriormente ribadita nell'arco del
 successivo periodo di tempo,  per  concludersi  con  la  fondamentale
 sentenza 429 del 1992, che ha chiaramente espresso il concetto che la
 giurisdizione  normalmente da adire e' quella dei giudici ordinari ed
 ancora una volta affermato che la giurisdizione militare ha carattere
 eccezionale ed e' circoscritta entro limiti rigorosi.
   Nel periodo che collega le due sentenze, il giudice delle leggi  ha
 avuto  modo  di  affrontare  una  serie  di  questioni attinenti alle
 evenienze in cui si consumava una  sottrazione  alla  competenza  del
 giudice  speciale  di  reati  militari  ed ogni volta ha concluso nel
 senso che  costituisse  insindacabile  prerogativa  del  legislatore,
 entro  i limiti della ragionevolezza, rinvenire e sottoporre a tutela
 preminenti ragioni di interesse generale ed optare  in  tali  ipotesi
 per la giurisdizione ordinaria.
   Lasciando  da  parte  i  casi  in cui si e' appurato che mancava il
 presupposto soggettivo, (sentenze 112 e 113 del 1986, 207 del  1987),
 torna  in  questa  sede  utile,  per meglio impostare i termini della
 sollevata questione, soffermarsi sulle decisioni che hanno affrontato
 situazioni in cui era indubbia la ricorrenza di entrambi gli indicati
 presupposti e concluso per la legittimita' delle norme di  legge  che
 avevano statuito la competenza in merito del giudice ordinario.
   Buona   parte   degli  anzidetti  quesiti  ruotavano  attorno  alla
 disciplina della connessione  e  miravano  ad  ottenere  che  venisse
 dichiarata  la  illegittimita'  delle  disposizioni  che in tali casi
 stabilivano la assorbente ed  esclusiva  competenza  della  Autorita'
 giudiziaria ordinaria.
   Come e' noto, la Corte costituzionale ha in vario modo decretato la
 infondatezza  delle medesime ed ogni volta sulla base del rilievo che
 la norma costituzionale invocata come parametro non  consacrasse  una
 assoluta  riserva  di giurisdizione a favore del giudice speciale, ma
 ponesse  rigorosi  limiti  al  suo  legittimo  delinearsi   e   fosse
 preordinata  ad  una  funzione di garanzia contro la eventualita' che
 essa ne valicasse i confini massimi.
   3. - La valutazione d'insieme delle predette decisioni consente  di
 enuclearne il motivo ispiratore e di intendere appieno il significato
 degli  argomenti posti direttamente a base della conclusione cui sono
 pervenute. E' agevole rilevare come il filo conduttore  consista  nel
 principio  secondo cui la disposizione contenuta nell'art. 103, terzo
 comma, ultimo periodo,  non  configura  una  ineludibile  riserva  di
 giurisdizione  a  favore  del giudice militare, ma detti soltanto una
 norma  di  carattere  tendenziale,  da  calare  nel  contesto   delle
 concorrenti  disposizioni processuali e sostanziali e da contemperare
 con le esigenze alla cui tutela quest'ultime risultano preordinate.
   Da cio' deriva la conseguenza che, anche  con  limitato  e  stretto
 riferimento  ai  reati  militari  commessi  da  militari  in servizio
 attivo, non potra' giammai sostenersi la esistenza di una invincibile
 riserva di giurisdizione, ma andra' di volta in  volta  stabilito  se
 tali reati coinvolgano interessi ulteriori rispetto a quelli militari
 ed  indi  chiedersi  se  gli  articolati  interessi  cosi'  affiorati
 manifestino una spiccata attitudine ad essere tutelati in forme o con
 congegni  procedurali  che  comportano la attribuzione alla autorita'
 giudiziaria ordinaria della competenza a conoscere dei fatti  che  li
 abbiano violati.
   Esattamente  questo e' accaduto ed accade tuttora con riguardo alla
 disciplina del fenomeno della connessione di procedimenti  e  proprio
 questa  argomentazione  ha ispirato la declaratoria di illegittimita'
 costituzionale della norma  che  sottrasse  al  giudice  speciale  la
 cognizione  dei  reati  militari  commessi da militari minorenni e la
 attribui' al tribunale dei minori. Venne  in  tale  ultima  evenienza
 detto   che   "non   puo'   essere   impedito,  per  principio,  alla
 giurisdizione ordinaria d'assumere la cognizione  di  reati  militari
 allorche'  esistano  preminenti  ragioni  d'interesse  generale" e si
 sottolineo' con intuizione che si rivela di  determinante  peso,  che
 debba  essere  di  "volta in volta stabilito se particolari esigenze,
 beni o valori (come ad es. quelli  a  garanzia  dei  quali  e'  stato
 istituito  il  tribunale  per i minorenni) possano essere considerati
 preminenti rispetto ad esigenze, beni e valori tutelati attraverso la
 speciale giurisdizione dei tribunali di pace".
   4. - Come puo' dunque agevolmente notarsi, non e' in realta'  stato
 affermato,   ancorche'   incomplete  massime  ne  abbiano  alimentato
 l'equivoco, che l'unico significato della norma costituzionale  sulla
 giurisdizione dei tribunali militari sia rappresentato dalla rigorosa
 predisposizione  di cio' che ad essi e' precluso e come per contro si
 sia chiaramente asserito che esistono beni e  valori  tutelati  dalla
 speciale giurisdizione militare. Va da se' che la suddetta tutela non
 assume carattere assoluto e che debba di volta in volta darsi rilievo
 alle  concorrenti  esigenze che si palesino meritevoli di particolare
 protezione, con la conseguenza che senza alcun dubbio potranno  darsi
 deroghe   al   principio   tendenziale   e   quindi   previsioni  che
 legittimamente  sottraggano  al  giudice  militare  la  competenza  a
 conoscere  dei reati militari commessi dai soggetti che pur abbiano i
 necessari requisiti soggettivi.
   Sotto  quest'ultimo  profilo  merita  particolare   attenzione   la
 sentenza  della  Corte  costituzionale n. 429 del 10 novembre 1992. A
 prima vista essa appare esaltare la sola funzione di  limite  massimo
 contenuta nella disposizione di cui all'art. 103 della Costituzione e
 quindi  escludere  che  in  questa sia ravvisabile anche una garanzia
 dispeciale giurisdizione per i militari che  abbiano  commesso  reati
 lesivi  di  interessi militari. Ove le cose stessero in tali termini,
 la disposizione costituzionale avrebbe la  connotazione  di  un  mero
 divieto  e  l'unica  sua  funzione  sarebbe  quella  di precludere la
 eventualita' che  la  speciale  giurisdizione  sia  attivata  per  la
 cognizione  di  reati non rientranti nella prefigurata tipologia. Con
 la singolare conseguenza che basterebbe  una  articolata  sequela  di
 leggi  ordinarie  per trasformare in un guscio vuoto la giurisdizione
 militare ed azzerare totalmente la sua competenza.
   Ma se si va oltre la apparenza, non si tardera' a comprendere  come
 la  indicata  sentenza  non  abbia  affatto  invertito la rotta delle
 precedenti, ma soltanto calibrato alla specificita' del caso concreto
 la decisione adottata. In essa si esaminava se  fosse  conforme  alla
 Costituzione la norma che assegnava al giudice militare la competenza
 ad  occuparsi dei reati militari commessi da persone che, pur facendo
 parte delle Forze Armate, fossero cessate dal servizio  attivo  e  si
 trovassero  nella  posizione  intermedia  tra  questo  ed  il congedo
 assoluto (congedo illimitato, ausiliaria, riserva).
   La  Corte,  muovendo  dall'ispirazione  che presiedette il processo
 formativo del parametro costituzionale invocato e sottolineando  come
 la  norma  in  esso racchiusa fosse nata con il piu' volte menzionato
 duplice limite  oggettivo  e  soggettivo,  espresse  l'avviso  che  i
 militari  ivi  contemplati  non potessero essere altri che coloro che
 avessero le stellette e quindi  fossero  in  "servizio  attuale  alle
 armi"  o  legittimamente  considerati  tali  al  momento del commesso
 reato. In sede di motivazione asseri' che la diversita' di  piani  di
 giurisdizione  e  legge confortasse il principio che la giurisdizione
 normalmente da adire e'  quella  dei  giudici  ordinari  anche  nella
 materia  militare  e  ribadi'  che  la  giurisdizione ordinaria e' da
 considerare, per il tempo di pace, come la giurisdizione normale.
   Infine aggiunse che la indicata  relazione  logica  tra  regola  ed
 eccezione  verrebbe scompensata se si assumesse che la cognizione dei
 reati militari commessi da coloro che sono  assoggettati  alla  legge
 penale  militare  spettasse esclusivamente ai giudici militari e, nel
 sottolineare il principio che essa spetta invece di regola ai giudici
 ordinari, espressamente pose la importante riserva "salvo che non  si
 tratti di reati commessi "sotto le armi".
   A  parere  di  questa Corte remittente, dall'insieme delle indicate
 pronunce del giudice delle leggi puo' trarsi il seguente  corollario,
 nel contempo misura e limite della disposizione contenuta nella norma
 di cui all'art. 103, terzo comma, Cost.
   La  giurisdizione  militare  contemplata  e  protetta  dalla  norma
 costituzionale  concerne  soltanto  i  reati  militari  commessi   da
 militari  in  servizio  attivo,  o  considerati tali, e' circoscritta
 entro rigorosi confini soggettivi ed oggettivi  e  non  ha  carattere
 assoluto  ed  indeclinabile,  potendo  essere  derogata  da una legge
 ordinaria che risulti preordinata alla  tutela  di  preminenti  beni,
 interessi  e  valori.  Cio'  sta  a  significare che la giurisdizione
 militare, correttamente eccezionale rispetto al generico universo dei
 reati commessi da tutti coloro che appartengono alle Forze Armate, e'
 invece da considerarsi normale rispetto ai reati militari commessi da
 militari in servizio attivo (o considerati tali).  In  riferimento  a
 questa  ristretta  tipologia di reati, essa non solo e' giurisdizione
 normale ma e' anche giurisdizione di rango costituzionale.
   5. - La recente legge 8 luglio  1998,  n.  230,  (pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  n.  163  del  15  luglio  1998  ed in vigore dal
 successivo 31 luglio 1998), contenente "nuove  norme  in  materia  di
 obiezione  di  coscienza"  contempla, al secondo comma, dell'art. 14,
 una fattispecie penale che  recupera  l'intero  contenuto  di  quella
 prevista  dall'art.    8 della abrogata legge n. 772/1972 e configura
 altresi' ulteriori ipotesi tipiche. Essa amplia lo spettro dei motivi
 di coscienza che possono porsi a base  del  rifiuto  e  consente  che
 quest'ultimo  possa intervenire anche nel corso dello svolgimento del
 servizio militare.
   Il comma 3  del  medesimo  art.  14  attribuisce  la  competenza  a
 giudicare  del  predetto  reato  al  pretore del luogo nel quale deve
 essere svolto il servizio militare.
   A parere di questo collegio, la norma che stabilisce la  competenza
 del   pretore  e'  in  contrasto  con  le  previsioni  costituzionali
 contenute negli artt. 103, terzo comma, e 3, della Costituzione.
   E'  indubbio  che i militari chiamati a presentarsi alle armi siano
 militari in servizio attivo. Lo sono a partire dal momento  stabilito
 per  la  loro  presentazione  e  permangono in tale posizione fino al
 giorno in cui vengono inviati in congedo illimitato. La qualifica  di
 militare  in servizio attivo discende dalla oggettiva circostanza che
 risulta emanato un provvedimento che ne dispone  la  precettazione  e
 stabilisce  il giorno ed il luogo di presentazione. Essa e' del tutto
 impermeabile rispetto all'ottemperanza a tale ordine ed in alcun modo
 subisce modifiche in dipendenza della mancata presentazione  o  delle
 particolari ragioni che possono averla determinata.
   In  ordine  al  suddetto  profilo, e' incontestabile che il giovane
 Balducci  era  stato  chiamato  alle  armi,  a  seguito  di  regolare
 procedimento  di  arruolamento,  ed aveva l'obbligo di presentarsi al
 reparto di assegnazione alla data del 13 giugno 1995.
   Quanto alla natura del reato in tal modo commesso, e' convincimento
 unanime che sia da qualificarsi come reato militare. Esso offende  un
 interesse  esiziale per un ordinamento incentrato sulla ferma di leva
 e si profila, come sottolineato nella fondamentale  sentenza  n.  409
 del  1989  della  Corte  costituzionale,  ontologicamente  identico a
 quello di mancanza alla chiamata e come questo lesivo, con  identiche
 modalita',   dello   stesso   interesse,   "quello  ad  una  regolare
 incorporazione    degli    obbligati    al    servizio    di     leva
 nell'organizzazione  del  servizio militare". Le ragioni di coscienza
 addotte a spiegazione del contegno di oggettiva omessa  presentazione
 non  intaccano  la  natura del bene giuridico leso e non attenuano in
 alcun modo i suoi connotati di  fondamentale  interesse  delle  Forze
 Armate dello Stato.
   Questa   Corte,   allo  scopo  di  sottolineare  come  i  dubbi  di
 costituzionalita'  investano  le  norma  sulla  giurisdizione   nella
 totalita' della sua efficacia e non solo nella parte in cui si presta
 a disciplinare i fatti pregressi, ritiene che anche il nuovo reato di
 rifiuto  del  servizio  militare  sia  reato  militare  ed  abbia una
 struttura sostanzialmente identica a  quello  di  cui  alla  abrogata
 legge ed oggetto del presente giudizio di gravame.
   Le  uniche  modifiche  introdotte  dalla  nuova normativa sul punto
 specifico costituiscono puntuali riscontri  di  importanti  decisioni
 rese  dal  giudice  delle  leggi  con  riguardo  all'abrogato reato e
 l'impianto  complessivo,  soprattutto  per  il  fatto  di  aver  reso
 possibile  il rifiuto dopo la assunzione del servizio, consente senza
 alcun dubbio di affermare che sono  stati  addirittura  accentuati  i
 connotati  di  militarita'  della  fattispecie  incriminatrice  e che
 questa e' diventata una variante applicativa non solo  del  reato  di
 mancanza alla chiamata, ma anche di quello di diserzione.
   Sia  il  vecchio  reato,  quindi,  che quello delineato dalla nuova
 legge costituiscono tipici ed evidenti reati militari, tanto  che  in
 relazione  ad  entrambi  e'  stata  prevista e continua ad operare la
 particolare causa di estinzione rappresentata dall'accoglimento della
 domanda di prestare servizio nelle Forze Armate (art. 14, comma 6, ed
 8, legge n.  230/1998),  a  definitiva  conferma  di  come  non  solo
 l'interesse leso faccia capo all'ordinamento militare, ma addirittura
 sia  stato considerato talmente importante e delicato da giustificare
 una previsione che  assegna  un  radicale  effetto  estintivo  ad  un
 contegno  che,  risolvendosi  in  un fattivo ed operoso ripensamento,
 annulli la lesione in un primo momento inflitta al bene protetto.
   6.  -  Acclarato  che  e'  fuori  discussione  la  rilevanza  della
 questione prospettata  dalla  Procura  generale  militare  e  che  in
 relazione  ai fatti commessi sotto il vigore della abrogata legge non
 si ravvisa  alcun  ragionevole  motivo  per  la  brusca  deroga  alla
 giurisdizione  del  giudice  militare,  rimane  da  verificare se nel
 passaggio dalla vecchia alla nuova normativa la fisionomia del  reato
 di  rifiuto  del  servizio  militare  abbia  per  caso fatto emergere
 necessita'  di  tutela  che  si  prestano  ad  essere   adeguatamente
 realizzate  con  la  previsione della giurisdizione ordinaria. E cio'
 nella condivisibile prospettiva che assegna carattere  relativo  alla
 giurisdizione  del  giudice speciale e la espone alla soccombenza nel
 caso in cui il reato militare commesso coinvolga beni ed interessi di
 preminente valore e suscettibili di tutela  per  il  tramite  di  una
 deroga alla giurisdizione militare.
   Questa  Corte  ritiene  che  all'interrogativo debba darsi risposta
 negativa.
   Nessun ruolo svolge la circostanza che la previsione delittuosa sia
 contenuta in un contesto normativo che si  distingue  dal  precedente
 per  il  piu'  ampio  respiro assegnato al fenomeno dell'obiezione di
 coscienza e per la configurazione di un servizio civile in termini di
 sostanziale alternativa al servizio militare.
   Cio' inerisce al diverso profilo delle condizioni in presenza delle
 quali puo' darsi una valida ed efficace scelta a favore del  servizio
 civile,  trasformate  in presupposti rigorosamente delimitati e privi
 di qualsivoglia elemento di discrezionalita'.
   Ma in alcun modo ne sono  derivate  ripercussioni  in  ordine  alla
 struttura  del  particolare reato di rifiuto, che e' rimasto ancorato
 alle tradizionali formule di adduzione dei motivi e  che  continua  a
 profilarsi  come  un  illecito  che  si  commette a prescindere dalla
 verosimiglianza e autenticita' delle ragioni della  obiezione  e  che
 non  tollera in alcun modo disamine intese ad accertarne la eventuale
 natura strumentale e pretestuosa.
   Soltanto in quest'ultimo caso, e cioe' ove la norma  incriminatrice
 avesse richiesto come elemento essenziale del reato la sincerita' dei
 motivi di coscienza addotti a sostegno del rifiuto, si sarebbe potuto
 ipotizzare il coinvolgimento di un piu' ampio interesse, direttamente
 correlato   alla   manifestazione   dei  fondamentali  diritti  della
 personalita', e coerentemente concludere per la sottrazione della sua
 cognizione al giudice militare.
   Ma questo non e' accaduto ed il reato, oggi come  nel  passato,  e'
 rimasto del tutto agganciato alla mera adduzione dei rituali motivi e
 quindi continua a delinearsi come un oggettivo fatto di mancanza alla
 chiamata,  accompagnato  da espressioni che rilevano per il sol fatto
 di essere state  pronunciate  e  rispetto  alla  cui  veridicita'  ed
 attendibilita'  l'ordinamento  rimane  indifferente.  Non solo non si
 richiede alcuna preliminare  valutazione  della  verosimiglianza  dei
 motivi  addotti, ma e' finanche possibile che il reato venga commesso
 da persone che risultino aver riportato condanna per  reati  commessi
 con  l'uso delle armi o con contegni di violenza e quindi in presenza
 di quei rigorosi presupposti che rendono inammissibile la istanza  di
 svolgimento del servizio civile.
   7. - Per ragioni in parte coincidenti con quelle sopra esposte, non
 sembra  altresi'  manifestamente infondata la questione sollevata con
 riferimento all'art. 3 della Costituzione.
    La  identita'  sostanziale  tra  il  reato  di rifiuto e quello di
 mancanza alla chiamata e la circostanza che entrambi ledono lo stesso
 interesse rendono del tutto priva di giustificazione la norma che  li
 discrimina ai fini della giurisdizione e lasciano emergere profili di
 intrinseca   ed   insanabile   contraddittorieta'   tra   le  diverse
 statuizioni in ordine al giudice competente. Anche a tacere delle non
 lievi ripercussioni che si avrebbero nel caso  si  ritenesse  che  la
 nuova  normativa  abbia  trasformato  in reato comune un tradizionale
 reato militare (si pensi alla conseguente impossibilita' di concedere
 la attenuante prevista dall'art. 48, n. 2 c.p.m.p.), rimane priva  di
 adeguate ragioni giustificatrici una disposizione che, a fronte della
 identita'  sostanziale  delle  fattispecie in raffronto, sottrae alla
 giurisdizione del giudice speciale e collegiale uno dei due  identici
 reati e lo assegni al giudice ordinario.
   In  conclusione,  la  norma  contenuta nell'art. 14, comma 3, della
 legge n. 230/1998 appare costituzionalmente  illegittima  in  quanto,
 senza  che  sussista alcuna necessita' di tutela di beni ed interessi
 di preminente valore e in difetto di qualsiasi ulteriore  ragionevole
 motivo,   sottrae  alla  cognizione  del  giudice  costituzionalmente
 competente per i reati militari commessi da militari in  servizio  il
 reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza.